"Norwegian Wood" di Haruki Murakami: il pozzo si trova al confine tra la fine del prato e l’inizio del bosco - OUBLIETTE MAGAZINE

2023-03-23 17:46:49 By : Ms. EVA MAO

Per continuare a leggere l'articolo è necessario disattivare l'AdBlock installato nel tuo computer. Oubliette Magazine è un sito certificato e sicuro per i naviganti.

Non riuscivo a smettere di leggere “Norwegian Wood” e di iniziare a scrivere. Ed è sempre un problema, in ‘sti casi, a volte due. Forse non saprò mai scrivere nulla, o forse nulla c’è, in quanto tutto ha già scritto l’autore. Ma non è, non può essere il caso di Haruki Murakami, che è così svolazzante, ellittico; e quindi?

Forse non sono capace? No, non può essere. Quando inizio a reagire per iscritto so di non essere in grado di farlo, ma non ignoro che basta mettere un piede davanti all’altro e, col solito sassolino in bocca, e si può percorrere, pur claudicando, qualsiasi sentiero di specie borgesiana.

“Avevo trentasei anni ed ero seduto a bordo di un Boeing…” E “la mia mente andò a tutte le corse che avevo perduto nel corso della mia vita.” Non è mai troppo tardi, né troppo presto. È sempre l’ora, adesso! L’ora di ri-alzarsi e re-agire!

“Il tempo passato, le persone morte o mai più riviste, le emozioni che non possono rivivere.” Urge muoversi, dai! Dai che ce la fai!

“Anche adesso che sono passati diciott’anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e…” il tempo della memoria scorre, non quell’altro. È inutile che ricordi per la miliardesima volta quel sempiterno verso di Keats. Ma non ce la faccio a rinunciare: a thing of beauty is a joy for… – ecco, lasciamolo sospeso per l’eternità!

“Mentre prima per ricordarla mi bastavano cinque secondi…” – e ora? “Il tempo si è allungato pian piano, come le ombre al tramonto.” Che infame destino: “… la mia memoria si sta allontanando da…”. Poi lei, “quell’immagine” ti grida: “Non vedi che sono ancora qui?” Ora a questo lei ti serve: “È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle.” – oppure riscriverle per la duecentesima volta.

“Il pozzo si trova proprio al confine tra la fine del prato e l’inizio del bosco” – e contiene una specie di Verità, scrisse un giorno il nobile Umberto Nobile. Bisogna scendere giù del tutto, nel suo imo.

“Non ha attorno né una recinzione né un parapetto…” – per poterci cascare meglio, urlò la nonna!

“E in quel buco si annida il buio, un buio così fitto che sembra contenere tutte le varietà di tenebra che esistono nel mondo.” – non ne manca alcuna.

“Così continuo a scrivere tenendoli stretti, questi ricordi imperfetti che si fanno sempre più sbiaditi ogni istante che passa, con l’impressione di succhiare un osso spolpato.” – e chi non è un beagle lanci il primo uggiolio.

Descrivo ora i personaggi: Eh? E per chi mi hai preso, per Murakami? Dopo aver vinto a biliardo per tre partite a uno, ché non poteva finire il suo campionato esistenziale con una sconfitta, Kizuki “Quella notte morì…” – in modo analogo al mio amico Gino, che scelse di farlo a due passi dall’obitorio: Gino (ma anche l’altro) “accese il motore” – e poi trasvolò per Colà. La macchina di Kizuki, insensibile, rimase per sempre nel suo fumoso garage.

“Non c’era nessun biglietto, nessun motivo plausibile…” – Gino invece inviò delle lettere ad amici e ad alcuni giornali, esprimendo il rincrescimento di non poter, in quanto suicida, donare i propri organi. Fino all’ultimo egli rimase vittima di un ganglio burocratico.

L’agente “sembrava pensare che uno che marina la scuola per andare a giocare a biliardo, il minimo che puoi aspettare è che si suicidi.” Collegare la morte alla vita, in quanto vera, è la cosa più banale che si può concepire. Così, è per te, Tōru Watanabe, così era per te, Giuseppe Ungaretti, che la scontavi giorno per giorno. Quella misera donnetta, quella gentile donzella “che, in quella sera di maggio, quando avevo diciassette anni, aveva afferrato Kizuki, in quello stesso momento aveva afferrato anche me.”

Ora sei con Naoko, la ragazza di quel Volatovia: “Per fortuna Tokio è tanto grande che per quanto potessimo camminare, rimanevano sempre altre strada dove andare.” – se sei in un piccolo centro, l’alternativa è girare in tondo, per cui non cambia granché.

“… continuavamo entrambi a parlare poco: ormai eravamo abituati a sedere nei caffè, uno di fronte all’altra, in silenzio.” Mentre Kizuki “riservava tutto il suo talento, per piccolo che fosse, solo per me e Naoko”. “Nagasawa invece spargeva il suo straripante talento in tutte le direzioni, come se per lui fosse un gioco…” – diceva Carmelo Bene che un talento questo può fare, di tutto, quindi poca cosa, mentre il genio crea nulla solo quello che non può evitare di creare. Tipo suicidarsi.

Per Nagasawa scopare è agire come Il giocatore di Dostoevskij: smazzare le carte e spargerle un po’ ovunque: il fine non è vincere, è continuare a giocare.

Sturmtruppen è il tuo compagno di stanza. In inglese è Storm Trooper, in giapponese chissà com’è! È un tipetto originale che fa ginnastica la mattina presto, saltellando quasi senza accorgersene, che lava tutto quello che c’è da lavare e che non ama i poster con le donnine ignude. Ed è detto tutto! Il suo gran merito, da te riconosciuto, è di aver fatto ridere sia Naoko che Midori, soave ragazzina che dirò poi chi è.

“Quel giorno Naoko parlò molto più del solito…” – infilando storie dentro storie dentro storie, forse aveva letto la Recherche?: “B a sua volta si raccontava nel racconto C, che era contenuto in B…” – che aveva inizio da A.

Tót à fîn, tutto ha fine, anche il discorso di tanta tristezza umana e femminea: “Senza che nemmeno me ne accorgessi, a un tratto era finito. Frammenti di parole restavano sospesi nell’aria, come se fossero stati strappati di nero.”

Ti chiedi ora se è stato giusto, “quella notte”, fare “l’amore con Naoko”. Lei un giorno ti dirà una cosa su quel termine: giusto. Ho iniziato la reazione scritta solo allorché, finalmente, hai ricevuto la sua lettera.

Dici ora a una nuova lei, Midori: “A nessuno piace la solitudine. Ma non mi faccio in quattro per fare amicizia. Così evito un po’ di delusioni.” Il tuo modo di parlare colpisce la sua immaginazione, e ti vuol rivedere. Le dici poi: “Non fare quello che si vuole, ma quello che è necessario. Questo è essere un gentiluomo.” – sei un genio, allora?

Midori ciarla tantissimo e tu le rispondi: “Feci di sì con la testa.”

Lei ti recita una sua poesia che si intitola “Mi manca tutto.” – è una disgraziata a cui non difetta la voce per declamarla. Mentre lei ti sta cucinando e tu la osservi, parlando il meno possibile, la tua attenzione è mirata a un incendio che si è sviluppato in uno stabile che sta di fronte. Alla fine di tutto, dopo averla necessariamente baciata, le prometti di tornare. Al che lei ti promette: “… ti farò trovare tutto pronto, compresi l’incendio per dessert.” – una così (stramba) femmina è ardua da trovare.

“Cercai di pensare che significato aveva avuto per me l’esistenza di Kizuki, ma non riuscii a darmi una risposta.”

Il tuo amico ti fa girare un tot di locali ma stasera non riuscite a trovare due ragazze da scopare, e lui dice che una volta all’anno purtroppo capita anche a lui. Poi se ne va dalla sua ragazza, intesa come premio di consolazione. Tu invece vai al cinema, dove… Poco importa che fai. Quanto al fatto che Naoko ti ha risposto, finalmente (lo dico anche per me). Lei scrive, tra l’altro: “‘Giusto’ è una parola che usano molto di più i ragazzi”, mentre le donne preferiscono capire cosa sia “bello”. Però giusto è la parola che le serve ora. Per quanto attiene alla bellezza, ora lei non ha tempo.

“Questa vita non sarebbe possibile se non fossimo tutti qui in base a certe premesse.” – e chi li ha messe, così incombenti, sopra i nostri umidi nasi? Esse finiscono per alterarci: “… le alterazioni sono la condizione preliminare del nostro essere qui. Le portiamo attaccate a noi come gli indiani portano in testa le penne per dichiarare la loro tribù di appartenenza. E così viviamo tranquilli, senza ferirci a vicenda.” – per evitare scontri tribali l’importante è scordare dov’è stata sepolta l’ascia bellica.

Dopo aver letto l’inquietante ma non inquieta missiva, intuisci, non so se a ragione, che il nome dell’istituto “Amiriō” – alloggio, derivi da una radice francese: “ami”. Questa kam’a che salta fuori da tute le parti: come m’appassiona! Anche a te, lo sento.

Ogni tanto citi Il giovane Holden e La montagna incantata, che stai leggendo. Del primo ricordo che era intelligente e svanito in qualche luogo mentale; del protagonista del romanzo di Mann, che posso dire, se non che, anche mentre si stava misurando la febbre, stava sviluppando una sua individuale ricerca di consapevolezza?

Il Capitolo Sesto è finora il più lungo, quasi un centinaio di pagine, e il più significativo. Sei andato a trovare nel suo eremo la tua bella Naoko, dove ti dicono che devi chiedere “della professoressa Ishida”. Quando la vedi, noti subito le sue rughe e che, paradossalmente, “esaltavano qualcosa di molto giovanile in lei” – avendo già letto il capitolo, ti chiedo se scorgevi qualcosa di ancora irrisolto? – “Quando sorrideva le rughe sorridevano con lei, e quando assumeva un’espressione concentrata le rughe facevano altrettanto.”

Nelle altre occasioni, “le rughe si distribuivano su tutto il viso in un’espressione calda e allo stesso tempo sottilmente ironiche.” – e, dato che la tipa ama le antifrasi, le rughe ironizzano con lei, restando per un po’ serie, per poi ridere ancora: stava solo scherzando! Che matta!

Un esempio di storielle delle tre o quattro che spara: “… quando scende la sera sono guai. La sera mi viene la bava alla bocca e mi rotolo per terra.” – e tu, giovane Tōru Watanabe, le chiedi: “Davvero?”, al che lei ammette che stava pazziando. Un po’, senza eccedere, lo è, pazza. Si meraviglia che tu le abbia creduto. Anche tu.

“Tra le persone colpite da malattie come le nostre, sono molti quelli dotati di capacità specifiche.” – pure lei fu una degente, e in gran parte lo è ancora. Degente da de-agere, di agire, ma solo lì, in quella specie di paradiso incantato, assai difficile da raggiungere, tra l’altro. Da dove si può uscire quando si vuole, per non più rientrare, però, onde evitare un continuo via vai. Come chi si spreta, che mica può farsi di nuovo ordinare!

“Perciò siamo tutti alla pari. Pazienti e membri dello staff, e tu stesso.”

Lei e Naoko sono in una (quasi) totale confidenza: “In un posto come questo non possono esserci molti segreti”.

Reiko, con le sue rughe curiose, ti chiede: “Non è che cerchi di imitare il ragazzo di quel libro, Il giovane Holden?” – e Tu, Tōru Watanabe, neghi. Vorrei sentire a proposito l’opinione di Haruki. Chi non cerca di imitare mostra di disprezzare chi l’ha preceduto, e non mi pare che nessuno dei due ami comportarsi in tal modo. Quando la solita curosina Reiko, ti chiede cosa tu stia leggendo, vedendo che si tratta del romanzo di Mann, ti dice, “incredula”: “Ma come ti è venuto in mente, tra tanti libri, di portare proprio questo in un posto del genere” – è come portare Gomorra di Saviano quando sei in una spa a Scampia. Io lì ci andrei con Tre metri sopra il cielo di Moccia, che ancora non ho letto, e così dormirei tranquillo.

Per rallegrare l’ambiente narri di Sturmtruppen, e “bastava parlare di lui perché il mondo si ripempisse di allegria e risate…” – tanto che prima di un’impiccagione io farei parlare il condannato con lui, anziché col cappellano.

I sei mesi passati dalla sera del compleanno di Naoko, ti parevano “un’eternità, forse anche perché ci avevo pensato troppe volte. Ci avevo pensato talmente tanto che la percezione del tempo si era dilatata e stravolta.” – la tua vita si era svolta con un suo ritmo, posso definirlo così?, lumachesco.

Parlando del defunto Kizuki, Naoko spara una banalità, di quelle che reggono l’intera nostra esistenza: “I morti restano morti, ma noi dobbiamo vivere.” Ammetti di amare “viaggiare a piedi da solo. Nuotare. Leggere libri…” – da noi si dice che… tót i cajòun a gh’an la só pasiòun, la mia è leggere i libri altrui e di scrivere le reazioni mie, attività solitarie, ma non amo camminare, vedere film o partite di soccer da per me, espressione reggiana per dire da solo e per me solo. Solo una cosa bramo più di ‘ste storielle narrate: viverne di nuove con chi amo. Anche tu, vero?

Poi dici: “Non ho mai avuto molto interesse per i giochi da fare con gli altri. Non riesco ad appassionarmici. Non mi importa di come vanno a finire.” – tu la patisci, quando c’è, la senti quel kam’a condivisa con l’Altro, ma non la vai cercando, ma quando la trovi ti tarsformi in un altro, anche se non lo dai a vedere più di tanto.

A proposito, Reiko ti confessa che sta scrivendo una “autobiografia”, ma poi dice: “Scherzo…”. Secondo me si diverte a farti cadere in un tranello per poi tirarti su per al cupèin, il coppino, la cervice.

Secondo Anoko, “tu significavi il legame che ci metteva in rapporto col mondo esterno…” – e questa era la funzione di un mio amico, quando effettivamente passavo troppo tempo a leggere ‘sti oggettini così intrisi di cellulosa nonché di anima. Anoko sta pensando a sé e al suo amore ormai sotterrato, che sta ormai a vèder i radéc da la pêrt dla raîsa, a vedere i radicchi dalla parte della radice, senza più mangiarli, purtroppo. Dice ancora: “Noi ci sforzavamo di assorbire il mondo esterno grazie alla tua intemrediazione. Purtroppo poi non ha funzionato.” – e poi ti confessa che: “per me rimani l’unico legame col mondo esterno”.

Reiko sa che, tra voi, è solo tertia inter pares, ma apprezzata da entrambi, ed essenziale per Naoko, e un po’ anche per te. La senti raccontare una sua penosa storia, in cui una tredicenne abusa di lei e poi tenta di distruggerla. Ed è per quell’ormai lontanissimo motivo, ancor oggi incombente, che lei è qui. E ora tu sei là, fuori, in quello che singolarmente è detto mondo esterno. A quanto si ciancia dai tempi di Galileo, e poi di Albert, tutto è relativo.

Nel Capitolo Settimo, intontito, più del solito, torni a Tōkyō, dove incontri l’anima allegramente gemente, Midori, a cui dici: “È come se questo non fosse il mondo reale, come se tutto quello che c’è attorno, comprese le persone, non fosse reale.” Lei t’invita in Uruguay, ma poi cambia idea, perché là c’è della gran “cacca d’asina”. Anzi: “è proprio il mondo che è cassa d’asino” – e non si può mica scappare. Le dici che “nel mondo reale la gente vive esercitando sempre qualche tipo di pressione sugli altri.” – gli altri siamo noi, cantava Tozzi che qualche tournée l’avrà fatta nei dintorni di Tōkyō.

Le tue battute, fatte di “uhm”, “Già, chi lo sa?”, “Perché no? Un po’ mi interessa.”, “Va bene.”, etc, un po’ ricordano quell’eroe di Salinger. Ma qui ci sei tu, senza dubbio. E Holden è sempre là.

Poi lei ti fa una di quelle domande che scaldano non poco l’atmosfera: “Che dici, se scoppia la rivoluzione, gli agenti delle tasse cambieranno atteggiamento?” – formidabile è la tua risposta: “Ne dubito molto.”

Poi ti dice che il fatto che suo padre è partito e sta bene in Uruguay “erano tutte balle”, che tu non avevi messo in dubbio, perché così sei tu, non un credulone, ma un possibilista.

Mi piace la risposta che Midori dà al dottore che ha ironizzato della sua minigonna: “… mi chiedo come fai quando sali scale…” – al che, Midori, gli replica, giustamente: “Non faccio niente. Chi vuole guardare guardi pure…”. Adoro la sua libertà di pensiero, che lei sa donare a sé e al prossimo, per quanto esterno sia. Intanto suo padre, a cui lei dedica “di solito quattro” giorni alla settimana, sta andandosene Colà. Le dici di andare a far due passi, che per quella volta la sostituisci tu nell’accudirlo. Poco prima avevate parlato del primo argomento che era passato nella mente di Midori: la masturbazione di noi viriloni. Apprezzo il fatto che tu le prometta di dedicarle il prossimo onanismo, anche se, a pagina 256 tu ammetti: “la cosa non funzionò”. Purtroppo, non ho idea di come sia fatta questa simpatica femminella, altrimenti ci proverei anch’io.

Ho poi l’idea di rivolgermi all’onnipresente e onnicomprensivo Ojisan Wiki, e vedo che c’è stato un film tratto dal libro, con una certa Miko Mizuhara nel ruolo di Midori. Carina, dai. Magari dopo ci provo e ti dico.

Essendo frattempo morto il papà di Midori, per oggi anche a me non viene nulla. Domani, se mi ricordo, ci riprovo. Nel frattempo passo al Capitolo Ottavo, speriamo bene!

Stavo ripensando ai nostri due tentativi, virtuosi ma non coronati da successo. Ci abbiamo provato per amore, e credo che tu ami tanto Naoko, a cui scrivi una nuova lettera, e anche a Reiko, che le dici di salutare, e anche alla minigonnellata Midori, ed è questo folle sentimento che… che ci smuove il de-stino da qui a lì, perché senza di esso saremmo immoti, senza speranza alcuna. In amore non ci sono diritti, né doveri: solo atti che spostano un po’ le nostre piccole anime.

Dell’Ottavo ho poco da dire, se non che mi decido ad ammettere di non amare per nulla quel Nagasawa, per come tratta Hatsumi, la donna che lo ama, non riamata, ma accettata a tempo determinato, come si fa con una garzona di bottega che serve solo talvolta. Una femmina che serve. Come disse Totò: la serva serve! Lo strano è che mia figlia, che m’ha indotto a leggere il romanzo, lo adora, eppure è quasi una femminista! Com’è umano e donnesco contraddirsi!

Lei sa rispondergli a tono, soffrendo come una cuccioletta bisognosa di cure ma è bistrattata. Il suo padrone, a cui ogni tanto si ribella, la vuol convincere che tu, amico mio, sia in fondo come lui, cioè indifferente all’opinione e alle problematiche altrui. Tu neghi, ma lui insiste a dire: “A noi non ce ne frega niente di essere capiti. Per noialtri io sono io e loro sono loro.” Se tu obietti lui ti dice: “Ma non vedi che diciamo più o meno la stessa cosa?” – e poi continua la predica: “Se uno capisce un altro è perché è arrivato il momento, non certo perché quella persona desiderava, non certo perché quella persona desiderava tanto che l’altra lo capisse.” – infatti: egli non sa desiderare, né agire, vivere, respirare come gli altri: è un vincitore che corre su una bici in bilico fra due baratri. Non se, ma quando cadrà? Il verme che mi sale dal basso mi suggerisce un Speriamo presto! Così capirà!

Nagasawa se ne andrà in Germania (tanto lui sa illudere il prossimo in quattro o cinque lingue). Hatsumi si sposerà col primo o secondo venuto, non so: “… e due anni dopo il matrimonio si tagliò i polsi.”. Al che quel vincente vile ti invierà “una lettera da Bonn” – da cui non intende spostarsi per i funerali. Scrive: “Con la morte di Hatsumi qualcosa dentro di me si è spento per sempre. È stato troppo triste, troppo doloroso. anche per uno come me.” – anche uno come lui, un capo così superiore al resto della mandria, resta sempre una bestia da macello.  Ti ha fatto incavolare: “… feci a pezzi la sua lettera e non gli scrissi più”.

Tornando a quella serata, Hatsuni disdegna di andare da quel viziato dalla vita, preferendo la tua compagnia e, in un locale, ti strabatte a biliardo. Lei sì che è una campionessa (del dolore)! I suoi desideri? “A me basterebbe sposarmi, dormire ogni notte tra le braccia dell’uomo che amo, avere di bambini, fine. Questo è tutto quello…” – ma quel che desiderava, giungendo, non arrivò. Lei è ammaliata da quel tanghero e te lo confessa: “Innamorata fino a questo punto?” – le chiedi. “Anche di più” – ti risponde.

“Quella fu per me l’ultima immagine di Hatsumi…” – mentre esci dalla sua casa, lei sta alzando il ricevitore per chiamare qualcuno che non c’è.

Morale ridicola: chi ti batte a biliardo, è destinato a suicidarsi. Lei è la seconda, ricordi?

Che dire del Capitolo nono, se non che narra dei rapporti monelleschi e assurdi che si sono instaurati fra te e Midori? E che si conclude con l’ennesima lettera a una silente Naoko?

Passiamo al Decimo. Ove scrivi: “Guardavo con ammirazione e incredulità come Nagasawa riuscisse a ripetere lo stesso processo all’infinito senza il minimo segno di cedimento o stanchezza.” – come se per quel fetente l’entropia fosse un’invenzione concepita per stralunare i creduloni.

Io rimango stupito come, da una parte, Reiko e Naoko, dall’altra Nagasawa e Hatsumi, nulla sapessero le une degli altri, né della fantasticante Midori, che pure ignorava tutte queste ingombranti presenze della tua vita. L’unica a essere conosciuto universalmente è Sturmtruppen, il quale ora non è più rintracciabile, e chissà se salterà fuori almeno per i saluti finali.

Nagasawa ti dà il consiglio della vita: “Non farti mai prendere dall’autocompassione…” – e poi vi lasciate, “lui per andare verso un nuovo mondo, io per tornare nella mia palude” – ad ammirare quelle strambe paperine. E solo desideri ora di uscire dal guscio, dal college, di traslocare, senza avvertire Midori, non per disdegno ma perché “avevo sempre avuto questa tendenza a immergermi talmente in qualcosa da dimenticarmi per un po’ del resto del mondo.” – ecco qual era il motivo per cui quel Nagasawa tanto ti ammirava.

“Odiai…”, “odiai…”, “odiai…” – vedo che stai forse guarendo dal tuo torpore. Odio deriva, come tutto quel che danna e salva noi latini, dal sanscrito: da avadhit, respingere. Odiare diventa l’ultima difesa, prima di convergere il cammino verso l’altra sponda dell’esistenza: amare, provare una com-passione che ci salva dall’eterno freddo, che ci attira l’un l’altro, io e te, Tōru Watanabe, tu, Haruki Murakami e me. Un andare e venire nella brughiera, anche dove come, in Giappone, essa non esiste. Basta costruirsela con la fantasia.

Pesanti notizie: “Non sono più un ragazzo. Comincio a sentire le responsabilità. Io non sono più quello che tu hai conosciuto. Ho vent’anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere.” – benvenuto nel club dei (mal) prezzolati.

Una duplice passione: “Quello che provo per Naoko è un sentimento incredibilmente dolce, calmo e puro, mentre quello per Midori è di natura completamente diversa. È qualcosa che cammina, respira, pulsa, che mi scuote nel profondo.” – e che, persino mentre annaspa, lo fa ridacchiando, dando piacere a chi le ammira gli slip mentre sale dolcemente i gradini di un ospedale: “Io non so più che fare e sono terribilmente confuso”.

Pensiamo ora al Capitolo undicesimo e finale, per fortuna perché sono esausto, perché la vita è così: ci affatica dandoci dipendenza. Ci si affeziona alle disgrazie, come a quella che capita a Naoko.

“Che lei fosse morta, che lei non facesse più parte di questo mondo, era una cosa completamente incomprensibile.” – nulla si può dire a riguardo: perché diciamo questo mondo, e quell’altro, dove cavolo sta?

“Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte.” – che è una pianticella, ordunque.

Compi un viaggio della speranza, dove non ha importanza, leggendo poco si capisce, e con quale risultanza? Quella che, dopo un mese, è ora di tornare a quel che è reale, ma anche quella in cui vivevi lo era, a quanto racconti: “Coraggio, torniamo alla realtà, mi dissi.” Dov’è? Lo chiedo per chi mi sta leggendo.

“… la verità era una sola.” – e qui si potrebbe obiettare – “Naoko era morta e Midori restava.” – qui tutto è chiaro, luminoso, quasi abbacinante.

Reyko ti raggiunge a Tōkyō, e ti dice com’è andata tutta la questione: “Naoko non ha scritto nessuna lettera, niente, ma solo sui vestiti ha lasciato scritta una cosa.” – di una certa importanza. Ed è riportato con precisione tutta femminile a pagina 358.

“… il rapporto tra me e Naoko non era così semplice. Il nostro legame era sulla linea di confie tra la vita e la morte.”

Poi Reyko e tu avete la stessa idea, e la mettete in pratica. Non occorre che né Naoko, ovunque sia, né Midori lo vengano a sapere. Tutto nel cosmo è transitorio e quell’atto non fa eccezione. Se ti trovi in un pianeta abitabile nella costellazione dei Gemelli; oppure in quella dell’Ariete; o in un’altra qualsiasi, non è facile sapere dove sei esattamente, là zio Google Maps non tira mica.

“Quello che vedevo intorno a me era solo una folla di gente che mi passava accanto diretta chissà dove. Da quel luogo che non era da nessuna parte rimasi in…” – in linea con te stesso, oltre che “con Midori”.

Reyko viene a sapere di lei. Poi, per dei motivi suoi, se ne va. Anch’io. Ciao!

Ah, Sturmtruppen, amico disperso, se ti va, fatti vivo!

Haruki Murakami, Norwegian Wood, Einaudi, 2013

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.

Avvertimi via email in caso di risposte al mio commento.

Avvertimi via email alla pubblicazione di un nuovo articolo.

Usiamo i cookie per fornirti la miglior esperienza d'uso e navigazione sul nostro sito web.

Puoi trovare altre informazioni riguardo a quali cookie usiamo sul sito o disabilitarli nelle impostazioni .

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.

I cookie strettamente necessari dovrebbero essere sempre attivati per poter salvare le tue preferenze per le impostazioni dei cookie.

Se disabiliti questo cookie, non saremo in grado di salvare le tue preferenze. Ciò significa che ogni volta che visiti questo sito web dovrai abilitare o disabilitare nuovamente i cookie.